Italia: il cibo buttato nutrirebbe 44 milioni di persone Siamo immersi in una profonda crisi economica e sociale, che intacca redditi, culture, senso di sé di individui e comunità.
In questo quadro mi sembra giusto toccare e rilanciare temi e soprattutto azioni nei quali l’azione ambientale di prevenzione e riduzione della prevenzione dei rifiuti – oggetto di questa rubrica – si combina con elementi positivi di controtendenza sul piano economico e sociale.
Nella crisi si sviluppano infatti forme di “AltraEconomia”, con il diffondersi di pratiche attente, oltre che alla creazione di reddito, a concetti quali scambio, relazione, lavoro inclusivo.
Parliamone (questa è una sollecitazione ai lettori perchè segnalino esperienze di questo tipo).
Vorrei partire con un richiamo al caso del Last Minute Market (già trattato quasi un anno fa – v. La finestra sulla prevenzione sulla News letter n. 218). Riprendiamo il discorso cercando di dimostrare che non si tratta solo di una buon azione solidale, ma di un fatto economico e con ricadute sulla gestione dei rifiuti.
Andrea Segrè, dell’Universita’ di Agraria di Bologna. inventore e guru del LMM, stima che in Italia il cibo buttato potrebbe nutrire 44 milioni di persone. Sono infatti 20 milioni le tonnellate di cibo sprecato ogni anno nel nostro paese, per 37 miliardi di euro il valore corrispondente, pari a circa il 3% del prodotto interno lordo del nostro paese. Come si fa a buttare via questa ricchezza enorme mentre ci sono famiglie che stentano ad arrivare a fine mese?
Le esperienze del LMM e quelle ad esse collegate intercettano questo spreco e lo trasformano in risorsa, con alcuni benefici che dimostrano come le esperienze di prevenzione dei rifiuti possono diventare azioni win win, in cui tutti hanno qualcosa da guadagnare:
– il gestore dei rifiuti che potrebbe vedere sparire in questo modo quasi il 4% del totale di quelli che oggi è costretto a smaltire (o in parte, nel migliore dei casi, ad avviare a compostaggio, con costi di raccolta e trasformazione che possono essere evitati);
– i produttori agricoli e le aziende di distribuzione che si liberano della eccedenze senza sostenere i costi di smaltimento e migliorando la loro immagine ambientale e sociale;
– soggetti del terzo settore e i servizi pubblici e privati di assistenza che diminuiscono i costi di approvvigionamento delle sempre più frequentate mense sociali e dei servizi di sostegno alimentare alla persona;
– gli utenti dei servizi, che migliorano qualità e varietàà delle diete.
Non è quindi un caso se questa pratiche si stiano sempre più sviluppando, ed estendendo, grazie alla positiva evoluzione della normativa che consente il recupero delle altre eccedenze non alimentari, ma di cui le strutture di sostegno alla povertà hanno assoluto bisogno: medicinali prossimi alla scadenza, capi di vestiario non commerciabili, libri invenduti che le case editrici manderebbero al macero e tutti i prodotti che vengono buttati perché hanno piccoli difetti: un graffio o una confezione lacerata portano a buttare via televisori, computer, frullatori e altri elettrodomestici di ogni tipo, senza parare delle tonnellate di vestiti, borse e scarpe con marchi contraffatti.
Ma si tratta ancora di azioni locali, frutto dell’iniziativa di piccoli gruppi di volontari.
Voglio allora riprendere l’appello con cui chiusi la Finestra sulla Prevenzione sulla Newsletter 218: perchè non varare, con il “Programma nazionale di prevenzione rifiuti” che il nostro paese dovrà darsi entro il 2013, un’azione nazionale forte per varare un grande “piano nazionale eccedenze” che, a partire dalla ricognizione e dello studio delle esperienze in atto, vari una Linea Guida per la loro generalizzazione che definisca i possibili modelli e lo strumentario gestionale che conentano la generalizazione di questa pratica a livello nazionale.