Replicando alla recente puntata di Mi Manda Raitre, dove si affrontano le criticità del settore abiti usati, Valentina Rossi di Rete Nice mette in guardia contro le generalizzazioni e va in maggiore profondità su problemi quali l’illegalità diffusa e la fraintendibilità del messaggio solidale (che caratterizza buona parte delle raccolte). 

Non è la prima volta che l’argomento è oggetto di ascoltatissime trasmissioni mainstream: e anche questa volta, purtroppo, l’approccio di comunicazione non è stato impeccabile. Infatti una cosa è descrivere gravi fenomeni che purtroppo esistono, e che vanno stigmatizzati e combattuti. Tutt’altra cosa è condannare mediaticamente un intero settore, come se si trattasse in toto di un settore di imbroglioni e criminali. Nell’ambito dei rifiuti tessili i delinquenti esistono, e le loro prime vittime sono i molti operatori onesti. Vittime nella competizione di mercato, perché chi lavora male è più competitivo (praticando l’illecito si sostengono meno costi, si possono facilmente offrire più soldi ai Comuni nelle gare, ecc..). Vittime anche perché a volte i delinquenti per accaparrarsi i territori di raccolta migliori non esitano a intimidare e fare attentati. E infine, ancora una volta vittime sul piano reputazionale, perché le generalizzazioni compiute da Raitre così come da altri canali televisivi hanno ormai gettato il discredito su chiunque faccia questo lavoro. Le televisioni nazionali, più di qualsiasi altro media, dovrebbero gestire responsabilmente la loro capacità d’impatto sull’opinione pubblica, evitando i sensazionalismi e rimanendo fedeli alla loro funzione informativa. Il sensazionalismo crea scalpore, ma essendo lontano dai fatti può essere facilmente strumentalizzato dai portatori d’interesse più astuti per tirare acqua al loro mulino. Il Ministero ha appena posto a consultazione degli stakeholder uno schema di decreto che andrà a stabilire le regole di un imminente regime di responsabilità estesa del produttore (EPR) dei rifiuti tessili. L’intervento di “Mi manda Raitre” arriva quindi in un momento delicatissimo, dove il Ministero sta prendendo delle importanti decisioni e dove il clima politico-mediatico potrebbe fare la differenza sugli scenari del futuro.

Il principale messaggio sensazionalista si basa su un frainteso grosso come una casa:

i cittadini conferiscono rifiuti tessili nei contenitori stradali pensando di fare beneficenza, ma vengono pesantemente defraudati perché, in realtà, i vestiti usati sono avviati a filiere di tipo commerciale…

Sulla base di questa lettura dei fatti, poi si cala un messaggio ancora più pesante:

le imprese commerciali coinvolte in questa filiera di per sé fraudolenta, sono gestite da camorristi e compiono sistematicamente illeciti ambientali.

Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza, perché ce n’è tanto bisogno:

1) La raccolta dei rifiuti tessili è un servizio pubblico di raccolta differenziata, deve obbedire ad alti standard operativi e di tracciabilità, e viene offerto in modo gratuito da operatori che riescono a coprire tutti i loro costi operativi grazie alla vendita degli abiti raccolti; oltre la metà degli abiti, dopo il trattamento di selezione e igienizzazione prescritto dalla legge, è avviato a canali del riutilizzo; il resto, a fronte di costi che sono a carico degli operatori, è avviato a riciclo o a smaltimento. A volte gli operatori della filiera utilizzano marginalità economiche per finanziare progetti sociali, venendo incontro al desiderio dei cittadini di avere un risultato solidale quando “donano” i loro vestiti. Ma tale risultato, appunto, avviene grazie alle marginalità economiche della rivendita: non certo sotto forma di donazione dei vestiti ai “poveri”.

Il sistema funziona così da vent’anni, è arrivata l’ora di farlo capire ai cittadini predisponendo una vestizione dei contenitori stradali che non favorisca il frainteso ma lo chiarisca alla radice, spiegando a chiare lettere come funziona la filiera dei vestiti. Se la solidarietà fa parte di una specifica filiera, gli operatori che la gestiscono dovrebbero rendicontarla con numeri e fatti trasparenti e inequivocabili, con i quali non si cerchi di dissimulare la dimensione commerciale gonfiando invece quella solidale.

I media, dal canto loro, anziché puntare al sensazionalismo scandalistico con l’unico fine di aumentare gli ascolti, dovrebbero aiutare a comunicare la realtà.

2) I delinquenti e gli illeciti ambientali in questa filiera sono una realtà oggettiva: il fenomeno non va sottovalutato ma deve essere affrontato nella sua giusta dimensione. Utilitalia, associazione di categoria delle aziende di igiene urbana che appaltano i servizi di raccolta e gestione dei rifiuti tessili, già nel 2021 ha pubblicato delle Linee Guida che invitano i loro associati a pretendere maggiore tracciabilità nelle filiere e a selezionare operatori onesti, trasparenti e caratterizzati da buoni standard di qualità. Spesso invece, e in barba alle Linee Guida, le aziende di igiene urbana continuano a fare gare selvagge dove il vincitore è chi offre più denaro, o a favorire soggetti amici che hanno capacità di pressione sulla politica locale. In vista del regime EPR dei tessili, i produttori avranno un importante ruolo nel selezionare l’impiantistica, e sarà in buona parte a carico loro la responsabilità di selezionare le filiere più idonee scartando quelle a rischio. E’ quindi nell’interesse di tutti gli stakeholder, e in primis degli operatori onesti della raccolta e del recupero, che chiunque abbia il potere di selezionare le filiere, abbia la possibilità di farlo liberamente, senza pressioni esterne, in base a criteri di legalità e risultato ambientale, e disponendo di strumenti efficaci di verifica e controllo.

3) La strumentalizzazione più odiosa che può essere fatta a partire dalle generalizzazioni mediatiche è la seguente: “siccome le filiere commerciali sono fatte da criminali, bisogna affidare i servizi e le filiere ad enti non profit che, per definizione, sono buoni”. La realtà che risulta dall’analisi attenta delle cronache e dei fatti giudiziari, è invece che a essere coinvolti negli illeciti più gravi sono indistintamente enti non profit ed enti commerciali. E laddove al non profit è stata offerta fiducia incondizionata nell’assegnazione dei servizi, si sono innestate più facilmente le filiere dell’illecito. Il non profit non va santificato né demonizzato: semplicemente dovrebbe obbedire alle stesse regole di tutti gli altri. Le turbative d’asta e gli appalto costruiti artificiosamente per favorire soggetti specifici non sono mai “azioni a fin di bene”.

4) I cosiddetti “Centri per il Riutilizzo”, che sempre più spesso vengono indicati come un’alternativa di “prevenzione dei rifiuti” da mettere in mano ai Comuni e agli enti non profit da loro selezionati, sono un grande rischio perché si pensa di posizionarli negli snodi della logistica dei rifiuti. Un ovvio rischio di cannibalizzazione dei flussi che minaccerà i punti di equilibrio degli impianti di trattamento che lavorano onestamente, perché questi ultimi trovano la loro sostenibilità economica grazie alla rivendita della “crema”. I “Centri per il Riutilizzo” saranno anche l’occasione perfetta per far crescere e prosperare flussi paralleli privi di controllo, dove a fronte dei maggiori vincoli applicati alle filiere del rifiuto, si affolleranno inevitabilmente i delinquenti e i camorristi. Secondo il Centro di Ricerca Rifiuti Zero oltre il 50% dei Centri di Riuso esistenti cede beni usati in cambio di “offerte economiche” (che è un modo elegante di definire il commercio al nero). Le donazioni ricevute dagli enti non profit e dagli enti caritatevoli non vanno messe in discussione, ci mancherebbe. Ma vanno rigorosamente tenute lontane dalle catene di valore del rifiuto e dalle logiche del commercio, altrimenti le deformazioni e gli illeciti diventano inevitabili. Chi dona un vestito a un’organizzazione benefica deve avere la certezza che tale vestito non sarà rivenduto ma donato direttamente a una persona bisognosa.

5) Smaltimenti illeciti nei paesi extraeuropei. Mi Manda Raitre non ne ha parlato lo scorso 19 febbraio ma lo ha fatto circa un anno fa focalizzandosi sullo scandalo della grande discarica abusiva di vestiti usati in Cile (vestiti di scarto che provenivano dalle raccolte di rifiuti tessili in Europa e negli Stati Uniti). Parallelamente, altri media nazionali e internazionali hanno enfatizzato il problema degli smaltimenti illeciti in Ghana e, più di recente, in Kenya. La dinamica è semplice: gli operatori disonesti, a fronte di costi di smaltimento che in Europa sono sempre più alti, infilano di straforo rifiuti tessili irrecuperabili nei lotti destinati a riutilizzo e riciclo, delegando ai destinatari lo smaltimento illecito. Anche in questo caso, il problema non può essere superato per mezzo della demonizzazione indiscriminata delle filiere extraeuropee, e tantomeno se questo serve a favorire indirettamente opzioni di riciclo chimico che hanno un impatto ambientale molto più alto. Al contrario, occorre estendere i controlli di filiera a valle e in tutti i paesi dove i vestiti trovano le migliori opportunità di riutilizzo: premiando i tanti operatori onesti che lavorano in loco, usando tutti gli strumenti di tracciabilità offerti dalle nuove tecnologie e implementando cicli di qualità moderni. Non siamo più nel medio evo: i controlli in Africa sono fattibili.

Le questioni del settore possono essere viste da molte angolature, e il modo migliore di avvicinarsi alla realtà e porre attenzione su ognuna di esse. Vanno però evitate le mistificazioni. Spero che questo umile contributo, che è frutto del ragionamento collettivo della rete di imprese che rappresento, pur non potendo produrre un impatto comparabili a quello di Mi Manda Raitre possa comunque rappresentare un sano spunto di ragionamento tra gli addetti del settore.

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Fonte: Leotron