Il nostro paese conferma di essere ai primi posti in questa poco onorevole classifica che premia lo spreco, aumenta i rifiuti ed è un costo evitabile e una scelta spesso (al contrario di quanto si pensa) a scapito della salute. Dal peso dell’azione individuale alla proposta di Altraeconomia e Legambiente.
Una rivista (Altra Economia) e una associazione ambientalista (Legambiente) denunciano da anni l’assurdità dell’uso di acqua minerale: aumenta i rifiuti, pesa inutilmente sulle nostre tasche e può non solo non aiutare ma anche (in certe situazioni) danneggiare la nostra salute.
L’uso abnorme e ingiustificato di acqua minerale è per me uno dei principali indicatori della (im)maturità ambientale del nostro paese.
Posso capire chi di certe acque minerali fa un uso curativo. Non dimentichiamo che questo era in origini l’acqua minerale: medicamento – che non a caso si vendeva in farmacia.
E comprendere i casi dei chi è spinto all’uso alimentare dell’acqua minerale da inadeguatezza degli acquedotti o dal disporre di fonti di approvvigionamento idrico di cui non sia accertata la salubrità.
Ma nel nostro paese il problema degli acquedotti sono le perdite della rete (che porta a sprechi intollerabili) non certo il livello di potabilizzazione che è normalmente buono.
Il 60% dei nostri acquedotti ha più di 30 anni, il 24% più di 50 anni.
Abbiamo 350mila chilometri di tubazioni ma almeno la metà risultano da riparare o sostituire.
Così le perdite della rete sono pari al 40,6% dell’acqua immessa (in Europa la percentuale è del 30%).
Ciò premesso, l’acqua pubblica viene da fonti generalmente sicure e spesso molto buone.
Ad esempio, noi veneziani beviamo (ad un costo così irrisorio da poterlo considerare gratuito) un’acqua che possiamo trovare (pagandola centinaia di volte di più) al supermercato, imbottigliata da una azienda di Scorzè che la preleva dalla stessa fonte dove pesca anche il nostro acquedotto.
Anche quest’anno, un dossier di Legambiente e Altraeconomia (uscito alla vigilia della “giornata mondiale dell’acqua” delle scorso 22 marzo e reperibile in rete1) ci offre i numeri di questo scempio ambientale di cui ci rendiamo complici quasi senza accorgercene.
Quello dell’acqua minerale in Italia è un settore che non conosce crisi: un giro d’affari stimato intorno ai 10 miliardi euro all’anno, con un fatturato per le sole aziende imbottigliatrici che i rapporti di settore stimano in 2,8 miliardi di euro, di cui solo lo 0,6% arriva nelle casse dello Stato.
Le aziende infatti pagano canoni che raggiungono al massimo i 2 millesimi di euro al litro (un costo di 250 volte inferiore rispetto al prezzo medio di vendita dell’acqua in bottiglia)”.
Questo guadagno assurdo a spese del saccheggio di una risorsa che è bene primario, vitale e da preservare (un “bene comune” per eccellenza) spiega l’abnorme sviluppo d questo settore nel nostro paese: in Italia ci sono oltre 260 marchi distribuiti in circa 140 stabilimenti che imbottigliano oltre 14 miliardi di litri necessari per garantire il consumo italiano.
L’acqua da noi continua spesso a essere gestita come se fosse proprietà privata a vantaggio di pochi che si assicurano enormi guadagni a discapito di cittadini, dell’ambiente e delle stesse casse pubbliche (nel migliore dei casi le aziende concessionarie infatti pagano 2 millesimi di euro al litro, cioè cento volte meno del prezzo di 50 centesimi che i cittadini pagano in media per una bottiglia d’acqua in un supermercato).
Il nostro consumo interno è pari a 206 litri pro capite all’anno e piazza l’Italia al secondo posto nella classifica mondiale (preceduta solo dal Messico, con 244 lt/ab/a), ma saldamente in testa a quella europea.
Fonte: elaborazione Legambiente su dati Censis
Certo, alcune situazioni di malfunzionamento non migliorano la percezione dei cittadini sul tema.
Su queste è necessaria una tempestiva e corretta informazione ed è importante intervenire per risolverle. (v. ad esempio il caso di avvelenamento delle fonti da Pfas nel Veneto)
Inoltre un impedimento (e un discredito) all’uso alimentare dell’acqua pubblica viene dalle esperienze di razionamento cui è stato necessario ricorrere in diverse zone del Paese.
Nel 2016 (dati Istat) il 9,4% delle famiglie italiane ha lamentato un’erogazione irregolare dell’acqua nelle abitazioni, una percentuale comunque in diminuzione rispetto al 2002 (14,7%), ma che assume ancora valori alti in alcune regioni: 37,5% in Calabria, 29,3% in Sicilia e 17,9% in Abruzzo.
Insomma (si legge nel dossier) le anomalie sono situazioni puntuali, per lo più note e segnalate dalle autorità competenti, che non devono essere generalizzate su tutto il territorio nazionale.
Perchè i controlli sull’acqua che arriva nelle nostre case (dettati dalle normative vigenti2 e molto accurati e frequenti) sono di due tipi: da un lato, vi sono i controlli interni del gestore che fornisce il servizio idrico, dall’altro vi sono i controlli delle unità sanitarie locali di competenza territoriale, programmati su base regionale.
In alcuni territori si sta inoltre iniziando ad applicare il Water Safety Plan (non ancora obbligatorio ma previsto dalle direttive comunitarie), ovvero il Piano di sicurezza per l’acqua potabile, che prevede più controlli, più prelievi, più parametri nell’intera filiera idro-potabile, da quando l’acqua entra nell’acquedotto fino al punto di erogazione finale.
Non è dunque veritiera la percezione comune dell’acqua del rubinetto meno salutare e meno controllata di quella in bottiglia.
È invece molto importante prendere in considerazione l’impatto ambientale delle bottiglie di plastica (in Italia il 90-95% delle acque in bottiglia viene imbottigliato in contenitori di plastica e il 5-10% in contenitori in vetro).
I principali fattori sono di due tipi (cui si potrebbe aggiungere il rischio di rilascio di plastica nell’acqua in situazioni di lunga permanenza e/o esposizione al sole durante i trasporti)
- L’immissione di gas climalteranti 3
- La produzione e la (non) gestione dei rifiuti, sulla quale è il caso di soffermarsi.
La cattiva gestione dei rifiuti è la prima causa dell’enorme quantità di plastica che invade gli ecosistemi marini4.
La dispersione nell’ambiente delle bottiglie è un danno non solo ambientale ma anche economico, infatti il PET è un materiale completamente riciclabile e versatile, riutilizzabile per produrre altre bottiglie (in parte), indumenti in pile, buste per la spesa, elementi di arredo, vasi da fiori e molto altro.
Su questo terreno c’è ora una possibilità di invertire la tendenza.
Il Ministero dell’Ambiente, con il decreto 3 luglio 2017, n. 142, ha deciso di attuare, su base sperimentale, volontaria e su cauzione, il sistema di vuoto a rendere per le bottiglie di plastica e vetro di volume compreso tra 0,2 e 1,5 L (quelle di acqua minerale e birra) vendute negli esercizi pubblici e in ogni punto di consumo, al fine di ridurre la produzione di imballaggi e il recupero di quelli usati.
La sperimentazione ha una durata di 12 mesi a partire dal 7 febbraio 2018 e gli esercenti possono decidere di aderire volontariamente.
Si tratta di una iniziativa utile, benché parziale (e scarsamente pubblicizzata); sarebbe ben più importante arrivare ad una legge vincolante che cambi l’ottica di un approccio occasionale e volontario per puntare strutturalmente al riuso degli imballaggi.
Sembra un sogno in Italia, dove lo spreco è sovrano, ma i dati dei altri paesi europei dovrebbero farci riflettere5, anche perchè si stima che applicando il sistema del vuoto a rendere, l’ammontare dei rifiuti si riduca del 96% per il vetro e dell’80% per la plastica, e che il riuso per 20 volte di una bottiglia di vetro comporti un risparmio energetico del 76,91%.
Per concludere, non posso che riprendere e fare mie le parole del report e chiedermi con amarezza come sia possibile che “Nessuno si indigna del fatto che una risorsa pubblica così preziosa, che avrebbe bisogno di una gestione attentissima, oggi venga svenduta per pochi euro al litro a fronte di guadagni stratosferici per chi la gestisce come se fosse una proprietà privata”.
Sono possibili due iniziative.
La prima di riassume nella parola d’ordine “cominciamo a farlo noi”.
Perchè mai come in questo campo il cambiamento può essere indotto dalle nostre scelte di consumo. Prima tra tutte quella di bere acqua pubblica a gestire tante piccole “guerre personali” all’acqua minerale in bottiglia.
Partiamo da qua.
È poi possibile aderire con più convinzione anche alle battaglie pubbliche e istituzionali, come quella, proposta da Altraeconomia e Legambiente.
Essa consiste nell’applicare un canone minimo a livello nazionale di almeno 20 euro/metro cubo (equivalente ad appena 2 centesimi di euro al litro imbottigliato – dieci volte superiore ai 0,2 centesimi attualmente corrisposti).
Questo permetterebbe di passare dagli attuali 18 milioni di euro incassati in totale dalle Regioni ad almeno 280 milioni di euro; una cifra che, seppur sempre di molto inferiore rispetto al fatturato delle aziende imbottigliatrici (2,8 miliardi di euro) e al costo di vendita al pubblico, non andrebbe ad incidere sulle tasche delle aziende e sarebbe invece utile a incrementare le entrate per le regioni, da reinvestire in politiche e interventi di tutela della risorsa idrica.