Lo scorso 9 giugno Rete ONU, la Rete Nazionale degli Operatori dell’Usato, ha organizzato un interessante conferenza online dove per la prima volta tutte le anime della filiera italiana del riutilizzo e recupero degli abiti usati hanno avuto la possibilità, in un unico evento, di esprimere le proprie opinioni e far conoscere il proprio punto di vista. A questo link è possibile rivedere l’intervento registrato.

Per il settore il momento storico è particolarmente importante, dato che il 1 gennaio del 2022 è entrato in vigore l’obbligo per tutti i Comuni di fare la raccolta differenziata del tessile e, parallelamente, si attendono i decreti ministeriali per l’attuazione della Responsabilità Estesa del Produttore (EPR) del settore tessile e abbigliamento. Dall’EPR arriverà un contributo organizzativo e finanziario determinante per il raggiungimento di obiettivi europei di recupero dei rifiuti che sono sempre più ambiziosi (55% entro il 2025 e 65% entro il 2035), ma nessuno ha ancora chiaro quali sono gli schemi che il Ministero della Transizione Ecologica (MITE) deciderà di adottare. Durante la conferenza del 9 giugno gli esponenti di Rete ONU hanno più volte manifestato preoccupazione per il fatto che il MITE ha coinvolto nelle consultazioni solo alcune associazioni di recuperatori escludendone invece altre. Il Presidente di Rete ONU Alessandro Stillo ha chiarito che l’ultima volta che Rete ONU è stata consultata formalmente sull’argomento correva l’anno 2019 ed era in preparazione la legge 116/20; dopodiché, da quando è iniziata la preparazione dei decreti attuativi, la voce di Rete ONU non è più stata ascoltata. Stillo ha manifestato perplessità anche sulla modalità con cui sono stati messi a disposizione i fondi PNRR che sarebbero dovuti servire ad aiutare i Comuni a introdurre o rafforzare la differenziata del tessile; il disciplinare del bando, infatti, avrebbe dissuaso dalla partecipazione molti dei possibili candidati. “Un vero peccato” ha detto Stillo “dato che tali fondi sarebbero stati importantissimi per far alzare una media di differenziata che ora è ferma a meno di 3 kg annui ad abitante, a fronte di quasi 15 kg di rifiuti tessili urbani prodotti”.

Karin Bolin, rappresentante del comparto indumenti usati della Rete ed esponente del mondo della raccolta dei rifiuti tessili urbani, ha ricordato che oggi chi raccoglie lo fa in modo gratuito (in cambio della possibilità di rivendere i vestiti usati, ndr); “questo fa sì che, per forza di cose, la differenziata tenda a concentrarsi nei luoghi a maggiore densità abitativa, ossia dove è possibile operare in modo più efficiente ottenendo accettabili margini economici. In questo quadro, la responsabilità estesa del produttore sarà determinante per ampliare il sistema e incrementare i risultati ambientali”. “Ma perché il nuovo sistema funzioni” ha detto Bolin, “tutti gli anelli della filiera devono essere ben coordinati. Il riutilizzo, in particolare, va favorito in quanto migliore opzione ecologica. Però va preso atto che i know how in questi ambiti non si creano da un momento all’altro, non esiste un’università del recupero degli abiti usati: chi ha queste competenze le ha sviluppate grazie a tanti anni di esperienza. Le istituzioni locali, dal canto loro, dovrebbero aumentare il livello di comunicazione verso i cittadini, perché questi ultimi aderiscano alle novità di un sistema che, oltre alla tradizionale raccolta stradale, dovrà integrare anche nuovi modelli di raccolta come ad esempio il take back presso i retailer dell’abbigliamento”. La Bolin ha inoltre sottolineato l’importanza di armonizzare a livello europeo regole e modelli, ad esempio nel campo delle classificazioni per l’esportazione; l’esponente di Rete ONU ha affermato che la filiera ha bisogno anche di agire a livello extraeuropeo, ma dovrebbe farlo in modo responsabile evitando di “spostare” in paesi più poveri i problemi che abbiamo qui in Europa (come ad esempio la necessità di smaltire le frazioni non recuperabili). Dopo la Bolin è intervenuto Michele Acampora, esponente del mondo degli impianti di selezione autorizzati con codice R3, il quale ha sottolineato la complessità dei processi riguardanti l’end of waste dei rifiuti tessili. “Non è un lavoro semplice”, ha detto Acampora “i lavoratori devono essere formati a classificare e dividere le qualità, a capire le condizioni del vestito che si trovano fra le mani, a individuare la destinazione più opportuna per ogni singolo pezzo. Nell’ambito di ciò che è riutilizzabile, occorre distinguere tra ciò che adatto al mercato nazionale, o europeo, e ciò che invece trova mercato in Africa. I prodotti che non possono più essere riusati devono essere classificati in base alla fibra e alle diverse opzioni di riciclo. E’ un processo faticoso e complicato che include anche specifiche fasi di igienizzazione”.

Filippo Di Giovanni, rappresentante dei grossisti e degli ambulanti dell’usato, si è concentrato sul tema del pregiudizio verso la seconda mano esploso irrazionalmente durante il periodo pandemico. “Occorre ragionare sul rapporto tra cultura del riuso e pubblica amministrazione. Durante la pandemia si è scatenata una vera e propria caccia alle streghe, sembrava di stare nel medio evo; quando accadono tragedie o grandi calamità è fisiologico che la popolazione abbia risposte emotive, mentre invece è sorprendente il modo in cui hanno reagito le pubbliche amministrazioni”. Per quanto riguarda la vendita ambulante, infatti, le PA “hanno mostrato una scarsissima competenza sul tema del riutilizzo. Sostanzialmente hanno banalizzato l’approccio al problema assimilando l’abito usato all’abito sporco e l’abito nuovo all’abito pulito, ma senza tener conto che nel momento in cui arriva in una bancarella l’abito usato possiede per forza di cose un certificato di igienizzazione. Per colpa di questo frainteso nel 2020 migliaia di enti locali hanno semplicemente proibito la vendita dell’usato, con ordinanze che sembravano scritte con lo stampino. Abbiamo quindi dovuto educare le PA a intendere la realtà della situazione, oltre che far presente i principi di legge che non consentono la discriminazione. Oggi, anche grazie alla nostra battaglia, la vendita di usato è nuovamente consentita in tutti i territori. Ma non bisogna abbassare la guardia perché evidente che permane un corto circuito nella conoscenza della filiera: tutti i Comuni prendono atto, come fatto consolidato, che i formulari della raccolta differenziata del tessile aiutano a raggiungere risultati ambientali che ormai sono obbligatori; non riescono però a capire che la differenziata è possibile solo perché poi ci sono sbocchi di riutilizzo i quali, ovviamente, includono la vendita al dettaglio presso le bancarelle”.

Alessandro Giuliani, rappresentante del comparto dei negozi dell’usato conto terzi, ha fornito i numeri del suo segmento: circa 3000 negozi distribuiti sull’intero territorio nazionale, 800 milioni di euro annui di giro d’affari e 150.000 tonnellate riutilizzate di cui 12.000 tonnellate solo di abbigliamento. Giuliani si è concentrato su tre punti:

  1. L’EPR, del quale purtroppo si sente parlare soprattutto in funzione del riciclo e molto poco in funzione del riutilizzo, nonostante quest’ultimo sia considerato prioritario dalla normativa ambientale; “fortunatamente”, ha riferito Giuliani, “Sistema Moda Italia e Federdistribuzione, che sono i principali aggregati di produttori, hanno già costituito i loro consorzi per gestire la responsabilità estesa del produttore. Questo significa che esiste la possibilità di dialogare sulle possibilità di coinvolgimento dei negozi dell’usato nei sistemi di take back;
  2. Le istituzioni, “che mostrano una percezione distorta del riutilizzo”; Giuliani, in particolare, ha denunciato la paralisi dell’iter parlamentare delle proposte di legge per la promozione e il riordino del riutilizzo, alle quali non viene data nessuna priorità; l’approvazione di queste proposte di legge secondo Giuliani è fondamentale, perché gli operatori dell’usato oggi sono privi di codici ATECO e regimi fiscali adeguati; l’esponente di Rete ONU ha riferito che la Presidente della Commissione Ambiente Alessia Rotta all’inizio dell’anno aveva promesso una rapida calendarizzazione ma alle parole non sono seguiti i fatti;
  3. L’usato online, che non genera posti di lavoro, economia e gettito per lo Stato; le imprese che gestiscono le piattaforme ricevono ingentissimi fondi da investitori internazionali che sono male informati; le imprese beneficiarie dei loro investimenti infatti non hanno un vero modello di business e lo dimostrano i loro bilanci, che anno dopo anno continuano a chiudere sistematicamente in perdita.

l’articolo completo è disponibile è disponibile qui.

Fonte: Leotron