Cosa ci lascerà EXPO 2015: partire dalla fine della filiera alimentare non solo per intercettarne le eccedenze, ma per rivedere il ruolo dei suoi soggetti. E non solo per produrre meno scarti ma per “accorciarla” e renderla più sostenibile.
Perché la filiera alimentare è un esempio classico di come sia necessario “pensare globalmente” e assieme avere la capacità di “agire localmente”?
Semplice. In occasione di EXPO 2015, dedicato al tema “nutrire il pianeta”, è stato messo a punto un ambizioso documento che tenta di tenere insieme i tanti (e spesso confliggenti) soggetti della filiera di produzione del cibo.
Ci si può chiedere se sia possibile che la “Carta di Milano[1]” tenga insieme l’azione “regolatrice” delle istituzioni internazionali e degli Stati Nazionali, in modo da renderla capace da una parte di “disciplinare” gli interessi dei grandi soggetti economici della produzione, della distribuzione e della ristorazione che “governano” un mercato sempre più sovranazionale e integrato del cibo, dall’altra di salvaguardare il ruolo dei piccoli produttori che difendono colture e tradizioni alimentari locali in nome della biodiversità e delle eccellenze gastronomiche della quali la storia, in particolare quella del nostro paese, è ricca.
Partiamo, come sempre, della “coda” del problema, cioè dalla produzione dei rifiuti e dalla possibilità di limitarla ed evitarla.
Il dato di base è scioccante: ogni anno 1,3 miliardi di tonnellate di cibo prodotto per il consumo umano sono sprecati o si perdono nella filiera alimentare[2].
A questo dato se ne affianca un altro: nel mondo ci sono due miliardi di persone malnutrite o con problemi di carenze alimentari e quasi altrettante in sovrappeso, se non con tendenze all’obesità.
Recuperare il “surplus” che fa ammalare i secondi per sanare le carenze dei primi può sembrare la strada da percorrere.
E infatti le associazioni caritatevoli in Italia e nel mondo ci lavorano con assiduità[3], e in occasione della stessa EXPO è stato avviato un recupero delle eccedenze[4], sia pur non senza problemi.[5]
Non c’è quindi dubbio che sia necessario intervenire “a fine ciclo”, quando si creano le eccedenze e una quota di cibo ancora buono sta per essere buttato. In questo caso vanno tempestivamente e capillarmente messe insieme la “domanda” di chi ha bisogno con l“offerta” di chi può donare.
Per questo motivo il primo “programma attuativo” che il Programma Nazionale per la Prevenzione dei Rifiuti (PNPR) si è dato è il “Programma nazionale contro lo spreco alimentare” (PINPAS).
E’ però necessario farsi un’altra domanda, perchéè se non si interviene a monte, lungo tutta la filiera di produzione, distribuzione e consumo del cibo, non è possibile una sua (ri)configurazione tale da prevenire lo spreco a valle. Creare eccedenze è infatti intrinsecamente legato all’attuale organizzazione di un mercato che si fonda su sprechi di risorse e diseguaglianze distributive.
In estrema sintesi possiamo scegliere tra due strade, per affrontare i potenziali conflitti tra gli attori economici che stanno al centro della “Carta di Milano”.
La prima è quella del rafforzamento della rete degli scambi di prodotti di qualità certificata in termini di equità e capace di salvare i piccoli produttori che “fanno vivere la terra” e le sue tradizioni, assicurando cibo di buona qualità e in grado di mantenere la fertilità e la produttività dei suoli agricoli.
La seconda si affida alla cosiddetta “produzione quantitativa”, quella di una agricoltura chimica e industriale che ha portato alla quasi desertificazione di tante parti del nostro terreno agricolo o che spinge ora i paesi del sud del mondo a destinare i loro patrimoni agricoli alla produzione dei cibo (quando non di bio-carburanti) per l’occidente e i paesi emergenti.
Personalmente da anni ho fatto la prima scelta e i miei acquisti alimentari (ma ormai non più solo alimentari) passano per quanto possibile attraverso un Gruppo di Acquisto Solidale[6] e sono ispirati a due principi: filiera corta (rapporto diretto con i produttori) e qualità certificata (compriamo solo prodotti biologici certificati, se possibile anche “vicini”).
Al di là delle scelte personali c’è una questione che riprenderemo nella discussione del workshop dedicato alla prevenzione dei rifiuti il 21 maggio a Ravenna2015[7],
A Ravenna si chiederemo se e come si possa pensare ad una “food policy locale” come esperienza che mette insieme diversi soggetti delle filiera del cibo. E non (solo) per recuperare le eccedenze alimentari a sostegno del “welfare locale”, ma per perseguire la la valorizzazione ambientale ed economica di di tutti i soggetti della filiera alimentare sul piano locale.
Per produrre meno rifiuti, ma anche per sostenere le economie locali è possibile un (ri)lancio della produzione primaria bio regionale?.
Con una valorizzazione di chi produce e distribuisce a km0 e delle eccellenze della ristorazione legata ai territori.
Con il contenimento dell’inquinamento – in agricoltura, per il trasporto, per i rifiuti provocati.
Ma l’investimento deve essere prima di tutto culturale, per una sostenibilità legata al rapporto con i luoghi, le loro produzioni e le loro tradizioni gastronomiche.
In una cultura dell’accoglienza legata all’educazione alimentare e all’inclusività, per arrivare a non sprecare.
E quindi (ma solo alla fine) c’è il sostegno al welfare locale grazie al miglioramento di recupero e canalizzazione delle eccedenze, con un incremento quantitativo e un miglioramento qualitativo delle diete di chi è aiutato dall’alimentazione sociale (mense e pacchi).
Per concludere, riequilibrare il divario alimentare e ridurre la produzione dei rifiuti a livello mondiale è giusto esistano documenti di indirizzo come la Carta di Milano.
Ma solo un’azione locale può dar valore a questi indirizzi. Abbattere localmente i costi ambientali del trasporto e quelli economici dell’intermediazione, valorizzare le economie locali e lo scambio sostenibile di prodotti di qualità significa dare loro operatività e quindi senso. E questo è quanto più attuale e possibile in Italia, dove lungo tutta la filiera alimentare vi sono eccellenze e tradizioni da valorizzare.
Va proposto un percorso che faccia parlare i diversi soggetti della filiera.
In questo modo ci chiederemo se sia possibile costruire insieme una food policy territoriale che valorizzi il ruolo di ogni soggetto, e ne certifichi l’impegno (con un riconoscimento e un tornaconto – economico e/o di immagine ambientale).
Si può avviare un processo di progettazione condivisa che porti a pensare insieme a strumenti, e a condividere ruoli e riconoscimenti (marchio, agevolazioni amministrative o tariffarie, ecc).
Si potrebbe firmare un protocollo di intesa di filiera , per poi però valutare – al di là di generiche adesioni di principio, come costruire intese volontarie tra ente pubblico e operatori – economici, del terzo settore e del volontariato per arrivare alla certificazione (e alle opportunità conseguenti) per tre tipi di comportamenti virtuosi:
a) la qualità dell’offerta
b) le azioni a rifiuto zero
c) la devoluzione delle eccedenze.
Si tratterebbe poi di definire un piano di azione e di monitoraggio, perchè è essenziale ricavare indicatori di efficacia delle azioni a magari delle Linee guida che permettano la replicabilità e la diffusione del progetto.
Ecco la “Carta ….” che ci manca.
Una Carta che non sia alternativa a quella di Milano, ma che sappia declinarne gli indirizzi nei contesti,.
A partire da una scelta molto netta in favore di concetti che pure la carta di Milano ci propone: lo sviluppo delle biodiversità locale e dei soggetti che gestiscono le risorse agricole e ambientali in modo tale da renderla disponibile anche per le generazioni future.
[2] Fonte: Carta di Milano.
[3] V. Last Minute Market (http://www.lastminutemarket.it/) o Banco Alimentaere (http://www.bancoalimentare.it/ ).
[4] http://video.repubblica.it/dossier/expo-milano-2015/verso-expo-l-impegno-del-banco-alimentare-contro-lo-spreco-di-cibo/199158/198208