Non solo domestico ma anche di comunità: il compostaggio oltre che pratica individuale è anche esperienza collettiva di riduzione dei rifiuti organici. Indicato nei casi più isolati, non può sostituire raccolta dell’umido e compostaggio industriale nei centri urbani.
La premessa era stata posta dalla Legge n. 221/2015 (legge “Green economy”)1, che all’art. 38 aveva modificato il D.Lgs. n. 152/2006, aggiungendo all’art. 180 il comma 1 octies che affidava “al Ministero dell’ambiente, alle regioni e ai comuni, il compito di incentivare le pratiche di compostaggio di rifiuti organici effettuate sul luogo stesso di produzione, come l’autocompostaggio e il compostaggio di comunità”.
La sua regolamentazione venne rimandata ad un DM, che ora è stato pubblicato2: il Decreto 29 dicembre 2016, n. 266 Regolamento recante i criteri operativi e le procedure autorizzative semplificate per il compostaggio di comunità di rifiuti organici ai sensi dell’articolo 180, comma 1-octies, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, così come introdotto dall’articolo 38 della legge 28 dicembre 2015, n. 221.
Al pari di quello domestico, per il quale lo ha sempre sostenuto, questa rubrica considera il compostaggio di collettività un’azione di riduzione dei rifiuti e quindi lo iscrive alle politiche di prevenzione.
È vero infatti che uno degli scopi del DM, oltre a ridurre la produzione di rifiuti organici e gli impatti sull’ambiente dovuti della loro gestione è anche quello che di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo comunitario di riciclaggio del 50% dei rifiuti urbani.
L’art.8 stabilisce che i Comuni comunichino all’Ispra i dati sui materiali conferiti (stabilendo che – in assenza di dati puntuali delle amministrazioni locali relativi alla produzione pro-capite di frazione organica, il valore vada considerato pari a 120 kg/abitante anno) “ai fini del calcolo delle percentuali di riciclaggio dei rifiuti urbani di cui all’articolo 181, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.
Ciò nondimeno rimando agli atti di workshop organizzati dalla Finestra sulla prevenzione dei rifiuti (a Ravenna 2014) nei quali ritroviamo due elementi:
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l’autorevole parere del CIC che sulla base della normativa comunitaria, considera indubitabile che il compostaggio domestico sia azione di “prevenzione” dei rifiuti3:
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l’orientamento della Regione Marche che – a fronte della “non considerazione” da parte del Piano Nazionale di Prevenzione dei Rifiuti del compostaggio domestico tra le azioni di prevenzione del rifiuto organico – lo ha introdotto “ufficialmente” con il proprio Piano Regionale4.
E faccio notare che i due elementi di “autogestione del potenziale scarto” e della sua “non consegna al servizio pubblico” (e il conseguente “non destinarlo all’abbandono”, cosa che ne previene la trasformazione in “rifiuto”) ricorrono per il compostaggio domestico (in forma individuale) ma anche per anche compostaggio di comunità (in forma collettiva).
Anche perché la legge assegna ai Comuni obiettivi di recupero e riciclaggio, ma anche di riduzione dei rifiuti5 …
Ma veniamo al DM.
Esso stabilisce i criteri operativi e le procedure autorizzative semplificate per l’attività di compostaggio di comunità6 (intraprese da un “organismo collettivo” al fine dell’utilizzo del compost prodotto da parte delle utenze conferenti) di quantità non superiori a 130 tonnellate annue.
Per “organismo collettivo” si intendono due o più utenze domestiche o non domestiche costituite in condominio, associazione, consorzio o società, ovvero in altre forme associative di diritto privato che intendono intraprendere un’attività di compostaggio7.
L’organismo collettivo (che deve avere un “responsabile” che ne è il legale rappresentante) nomina un “conduttore” (il soggetto incaricato della conduzione dell’apparecchiatura) e di dà in “piano di utilizzo”, cioè approva un documento recante le modalità di utilizzo del compost ottenuto dall’attività di compostaggio di comunità.
Compost che dovrà avere precise caratteristiche, definite all’art. 6, che specifica che deve rispettare i parametri indicati nell’allegato 6 per essere impiegato “secondo il piano di utilizzo, in terreni a disposizione delle utenze conferenti anche se non localizzati in prossimità dell’ubicazione dell’apparecchiatura, nonché per la concimazione di piante e fiori delle medesime utenze”, mentre – per poter essere “utilizzato su suoli agricoli destinati alla produzione e vendita di prodotti per uso umano o animale” deve essere “conforme alle caratteristiche dell’ammendante compostato misto e dell’ammendante compostato verde, ai sensi del decreto legislativo 29 aprile 2010, n. 75, in materia di fertilizzanti.”. Se poi il materiale prodotto non rientra nelle specifiche dell’allegato 68 è da considerarsi rifiuto urbano e non è ovviamente computabile ai fini del calcolo delle percentuali di riciclaggio.
Il compostaggio di comunità avviene attraverso un “apparecchiatura”, collocata nelle immediate vicinanze (al massimo entro un chilometro) delle utenze che in modo autonomo conferiscono rifiuto organico all’attività di compostaggio di comunità.
Per “apparecchiatura” si intende una “struttura idonea all’attività’ di compostaggio di comunità … finalizzata alla produzione di compost mediante decomposizione aerobica in cui l’aerazione avviene in modo naturale (compostiera statica) o indotto (compostiera elettromeccanica). L’apparecchiatura è classificata in funzione della capacità di trattamento in taglie: 1) piccola T1, se i materiali trattati sono fino a 10 ton/a; 2) media T-2, fino a 60 ton/a; e grande T3, fino a 130 ton/a 9.
E qui c’è un primo problema: per le piccole quantità l’apparecchiatura può essere “statica”, per le medie e grandi deve essere “elettromeccanica” (con tutto ciò che comporta sui costi di investimento e di gestione della stessa).
Quali materiali si possono trattare? L’art. 4, dedicato alla “Gestione dell’attività di compostaggio di comunità” specifica i “Rifiuti e materiali ammissibili nell’apparecchiature di compostaggio di comunità”, specificandone in allegato 3 codice CER e condizioni di ammissibilità.
Nelle apparecchiature sono immessi esclusivamente i seguenti rifiuti biodegradabili identificati con i relativi codici del catalogo europeo dei rifiuti:
– rifiuti biodegradabili di cucine e mense (20 01 08);
– rifiuti biodegradabili prodotti da giardini e parchi (20 02 01);
– segatura, trucioli, residui di taglio, legno, piallacci (03 01 05);
– scarti di corteccia e legno dalla lavorazione della carta qualora non addizionati (03 03 01);
– materiale filtrante derivante dalla manutenzione periodica del biofiltro a servizio dell’apparecchiatura (15 02 03);
– imballaggi in carta e cartone (15 01 01);
– imballaggi in legno (15 01 03);
– carta e cartone (20 01 01).
I rifiuti di segatura, trucioli, residui di taglio, legno, piallacci (03 01 05) e gli imballaggi in legno (15 01 03) sono ammessi solo se non trattati; sono esclusi i pannelli di truciolare.
Sono esclusi i rifiuti di carta (20 01 01) e cartone (15 01 01) contenti inchiostro.
I rifiuti di carta (20 01 01), cartone (15 01 01) e imballaggi in legno (15 01 03) sono ammessi limitatamente alle quantità necessarie come strutturante e non superano il 20 per cento del totale dei rifiuti immessi nella apparecchiatura.
Nelle apparecchiature sono, inoltre, ammessi come materiale strutturante i composti di legno vergine non inquinato quali pellet in legno non trattato, segatura, trucioli, residui di taglio, legno, piallacci, scarti di corteccia e legno di pezzatura non superiore ai 2 cm.
La gestione è in carico ad un “conduttore”, scelto dall’organismo collettivo (e formato -nel caso di “apparecchiature” di taglia media T2 e grande T3- con appositi corsi di formazione) e viene “esercitata secondo le modalità operative indicate nell’allegato 4, parte A, rispettando i parametri di cui all’allegato 4, parte B.10 .
Si tratta di capire se anche questo è (come pare -almeno per le taglie media e grande) un costo o se può trattarsi di “prestazione volontaria” (ma che offra le sufficienti garanzie di conduzione).
La procedura autorizzativa (definita all’art. 3) per poter partire è “semplificata”: serve una “segnalazione certificata di inizio attività11 (firmata dal responsabile e contenente il regolamento sull’organizzazione dell’attività di compostaggio, adottato dall’organismo collettivo e vincolante per le utenze conferenti) al comune territorialmente competente, che ne da’ comunicazione all’azienda affidataria del servizio di gestione dei rifiuti urbani. “.
Una volta “spiegato” il DM, che giudizio dare sul suo impatto?
E’ senz’altro positivo che il legislatore abbia voluto dare certezze laddove prima c’erano solo sperimentazioni e varare una norma a cui uniformare un’attività che sta sempre più diffondendosi anche nel nostro paese12.
Ma attenzione:
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l’Italia, con i suoi sei milioni e mezzo di tonn/a è al secondo posto in Europa per la quantità di rifiuti organici avviati a compostaggio industriale (dietro la Germania, inarrivabile per dimensioni territoriali e demografiche). E per qualità di queste matrici è al primo posto, grazie all’eccellenza del sistema di raccolta;
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nel nostro paese esiste una consolidata tradizione di compostaggio decentrato del verde, e la legge consente un trattamento semplificato della matrici ligneo cellulosiche fino a 1.000 tonn/a13
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Il compostaggio di comunità dell’organico che comprende tutte le matrici di cui all’art. 4 e allegato 3 del DM (ricordate sopra) va quindi bene perché può integrare:
(1) compostaggio domestico,
(2) compostaggio decentrato del solo verde e
(3) raccolta differenziatta RD dell’umido da avviare a compostaggio industriale.
Che ritengo vadano considerate – nell’ordine che ho indicato – le scelte più sostenibili.
Lo può fare in quelle situazioni “marginali”, nelle quali è difficile e ambientalmente ed economicamente sconsigliabile puntare alle tre soluzioni di cui sopra.
Cioè dove ad es. il luogo della produzione di organico anche proteico è lontano da un impianto di compostaggio, ben venga il compostaggio di collettività.
Meglio se nella fattispecie T1 (per le ragioni sopra ricordate) ma anche T2 e T3
MA NON IN ALTRI CASI !
Perché se ho un campo o un giardino l’auto compostaggio è più economico ed educativo; se ho una produzione di verde (a partire dai parchi, anche urbani) me la posso compostare con il regime autorizzatorio semplificato e con bassi costi di investimento e gestione.
Se ho invece bisogno di compostare anche l’umido proteico e sono in un luogo isolato e di difficile accesso, allora ben venga il compostaggio di comunità, al limite anche meccanizzato14.
Mi pare invece sbagliato proporre l’uso di macchine in sostituzione degli impianti di compostaggio e in situazioni urbane a forte intensità abitativa.
Per capirci: il compostaggio di collettività può andar bene per risolvere i problemi del piccolo e virtuoso comune campano di Cuccaro vetere15 o quelli che stanno ponendosi i Comuni della Valsusa (che per il tipo di gestione potrebbero probabilmente utilizzare apparecchiature T116) o quelli degli scarti della mensa di Capannori (LU) dove pure mi sembra la gestione di quella che fu una delle prime attrezzature elettrodinamiche attivate da noi qualche problema in passato l’ha provocato.
Non certo di una città.
Un eccessivo poco meditato entusiasmo non deve distogliere dal fare i conti con i costi di investimento e di gestione e di valutare con attenzione le ricadute che questi hanno (comparando le due ipotesi di compostaggio – centralizzato “industriale” come esito delle RD di umido e verde vs decentrato “di comunità”) nel determinare i costi unitari a tonnellata di matrice organica trattata e le conseguenti ricadute sulle utenze del servizio di gestione rifiuti attraverso la tariffa.
Vorrei infatti ricordare che tra le eccellenze italiane della gestione dei rifiuti (che in economia circolare dobbiamo imparare a chiamare e considerare come risorse) abbiamo quella della filiera dell’organico. Che passa per:
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la sua prevenzione (fatta di limitazione dello spreco, recupero a fini sociali delle eccedenze alimentari, di autogestione degli scarti umidi e verdi);
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la raccolta con i sistemi secco umido domiciliarizzati;
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il compostaggio industriale;
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il contributo che il compost dà al mantenimento della fertilità del terreno e alla lotta al cambiamento climatico con il sequestro del carbonio al suolo.
Un sistema sinergico e integrato, che va mantenuto introducendo elementi nuovi, come il compostaggio di comunità.
Ma come utili articolazioni del sistema, non certo come scorciatoie salvifiche.
– Riduzione del 5% della produzione di rifiuti urbani per unità di Pil. Nell’ambito del monitoraggio per verificare gli effetti delle misure, verrà considerato anche l’andamento dell’indicatore Rifiuti urbani/consumo delle famiglie;
– Riduzione del 10% della produzione di rifiuti speciali pericolosi per unità di Pil;
– Riduzione del 5% della produzione di rifiuti speciali non pericolosi per unità di Pil. Sulla base di nuovi dati relativi alla produzione dei rifiuti speciali, tale obiettivo potrà essere rivisto.”
1. Il compost in uscita dal processo di compostaggio rispetta i seguenti parametri:
a) l’umidita’ e’ compresa tra 30 e il 50 per cento;
b) la temperatura massima non supera i 2 gradi centigradi rispetto a quella ambientale;
c) il pH e’ compreso tra 6 e 8,5;
d) le frazioni estranee, diverse da quelle indicate nell’articolo 5, sono inferiori al 2 per cento in peso;
e) le frazioni pericolose sono assenti.