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25/06/2022

Vestire meglio e più sano: è giunta l’ora di proteggerci e migliorare il rapporto con i nostri vestiti

Dalla campagna Detox di Greenpeace ad un atteggiamento attivo per cambiare un settore ad alto impatto ambientale e sociale


La persistenza è come noto una caratteristica dei fenomeni connessi al cambiamento climatico. Che è così strutturalmente avviato che ci vorrà parecchio tempo prima che un’inversione di tendenza (ancora nella sostanza da avviare, peraltro) cominci a dare i suoi frutti.

Anche gli ecologisti però sono persistenti; non si scoraggiano e il loro battere continuamente su grandi temi del degrado ambientale un po’ alla volta consente di arrivare ai primi risultati.

E’ il caso delle campagna Detox my fashion , con la quale Greenpeace iniziò, nel 2011, a combattere la pratica – allora diffusissima – di utilizzare sostanze chimiche pericolose nella produzione di tessuti per l’abbigliamento.

Vista all’inizio come follia visionaria, la campagna ora comincia a dare qualche risultato e sembra avviata a “prendere il mercato”, perché i marchi che vi si uniformano sono sempre di più.

Detox mirò prima di tutto a rendere il settore dell’industria tessile consapevole dei suoi impatti sull’ambiente con l’obiettivo di arrivare, entro il 2020, ad azzerare gli scarichi di sostanze chimiche pericolose nelle acque superficiali.

Anche perché moltissime di queste sostanze chimiche non possono essere filtrate neppure dai moderni sistemi di depurazione, trattamento delle acque reflue: non usarle diventava quindi in questo caso lo soluzione preferibile.

Nel 2011 la campagna coinvolse alcuni grandi marchi, quali Adidas, Puma e Nike, che si proposero di eliminare le sostanze tossiche.

Ma l’opinione prevalente nel settore era ancora quella per cui fosse impossibile procedere il quella direzione, perché si riteneva che Nessun marchio internazionale della moda potesse rendere completamente trasparenti le proprie filiere produttive e eliminare tutte le sostanze tossiche da ogni fase di lavorazione”.

Eppure le cose hanno cominciato a svoltare. Greenpeace segnalava una inversione di tendenza negli ultimi anni1.

DDall’ultimo rapporto disponibile, del 20182, sappiamo3 che vi sono ottanta aziende impegnate in Detox (delle quali circa sessanta sono italiane).

Tra queste sono presenti sia gradi marchi (Valentino, Miroglio e Benetton) che numerose realtà tessili più piccole, la maggior parte proveniente dal distretto tessile di Prato, che di fatto è diventato il cuore della rivoluzione del settore in atto nel nostro paese. Le aziende hanno iniziato ad assumersi le proprie responsabilità sull’intero processo produttivo, non limitandosi a garantire la sicurezza del solo prodotto finito».

Il primo impatto generato dalla campagna Detox sul settore tessile-moda è stato quello di individuare una lista prioritaria di sostanze chimiche, sino ad oggi utilizzate per produrre i più comuni capi di abbigliamento, da eliminare dai processi produttivi.

Tra gli importanti cambiamenti introdotti dalla campagna di Greenpeace nel settore c’è senza dubbio la trasparenza e la tracciabilità delle filiere.

Le aziende impegnate in Detox pubblicano le emissioni di sostanze chimiche pericolose nell’ambiente sia dei propri fornitori che dei sub fornitori.

Più di due terzi dei marchi impegnati in Detox ha provveduto alla completa eliminazione dei PFC (composti poli- e per-fluorurati), utilizzati comunemente nei trattamenti idrorepellenti e antimacchia.

Insomma si è cominciato a dimostrare che produrre senza sostanze chimiche pericolose è già possibile e alla portata del mercato. E’ stato sottoscritto un impegno collettivo per eliminare le sostanze chimiche pericolose da parte delle aziende tessili del distretto di Prato, il più grande in Europa.

In Italia, sotto la spinta di Confindustria Toscana Nord, è nato il Consorzio Italiano Detox, diventato un punto di riferimento per tutte le aziende nazionali che vogliono intraprendere un percorso serio e credibile per una produzione priva di sostanze chimiche pericolose.

Le aziende del Consorzio Italiano Detox hanno già eliminato gran parte di queste sostanze dimostrando che anche per realtà industriali, rappresentanti della piccola e media impresa, produrre in modo pulito è già possibile.

Giuseppe Ungherese, Responsabile Campagna Inquinamento Greenpeace Italia ha avuto modo di sottolineare come “…. La velocità con cui al giorno d’oggi i vestiti vengono prodotti, comprati, utilizzati e buttati via aumenta vertiginosamente l’impatto ambientale della moda sul nostro Pianeta.”. Per questo, vista l’importanza del settore tessile nel nostro Paese si auspica che i responsabili politici intervengano e trasformino Detox in uno standard nazionale che garantisca competitività ad uno dei settori industriali più strategici in Italia.

L’associazione vuole anche incoraggiare pratiche che allunghino il ciclo di vita dei capi di abbigliamento e ne favoriscano il riciclo.”

Se qualcosa di muove sul terreno ambientale sono purtroppo invece tuttora pressochè nulli i risultati ottenuti dalla campagna per introdurre una equa politica sociale nei confronti dei lavoratori del settore.

Anche la più recenti ricerche attestano che i brand internazionali della moda promettono stipendi adeguati ai lavoratori ma non mantengono gli impegni presi. 4

Il rapporto ”Tailored Wages 2019: The state of pay in the global garment industry”, curato dalla “Clean Clothes Campaing5”analizza il comportamento di 20 brand internazionali dello abbigliamento per quanto riguarda l’impegno a garantire ai propri lavoratori un salario dignitoso (living wage)6. L’85% dei brand presi in esame si era impegnato garantire salari sufficienti a coprire le esigenze fondamentali dei lavoratori , ma nessuno ha mai concretamente messo in atto una politica di salari equi.

Tutti i brand ne escono bocciati. In realtà il salario minimo dell’industria tessile assicura a lavoratrici e lavoratori solo una quota del necessario per vivere : una quarto in Bangladesh, addirittura un sesto in Romania.

Questa situazione costringe i lavoratori a vivere in condizioni di sovraffollamento, spesso a non riuscendo a mandare a scuola i propri figli.

Oppure devono indebitarsi per sostenere le spese quotidiane.

O sono costretti ad accettare turni straordinari eccessivi per cercare di far quadrare i conti.

E arriviamo alla nostre responsabilità, anche personali, perché proprio qui sta il punto.

Si tratta di smettere di “far finta di non sapere e non vedere” e prendere atto che giustizia sociale e contenimento impatti ambientali devono segnare una profonda riforma globale del settore tessile.

Per raggiungerla ognun* di noi ha in mano un’arma formidabile: l’orientamento dei suoi acquisiti.

Siamo talmente abituati a prendere le borse di cuoio o i capi di vestiario dei “cinesi” che non pensiamo che potremmo chiedere a loro, ma anche ai marchi a cui ci rivolgiamo per acquisiti che ci sembrano più “regolari”, una certificazione di prodotto vera, che non sia solo l’esibizione di una targhetta – il Made in Italy – che può riferirsi anche solo ad una fase della lavorazione.

Eppure ci sono alternativa sostenibili, che oggi chiamiamo ancora “altra” economia, perché è al momento minoritaria rispetto .a quella tradizionale. Quest’ultima però è talmente energivora, ambientalmente impattante e socialmente iniqua che si sta affondando da sola.

Si stanno infatti sviluppando sempre di più i negozi che vendono tessuti e capi di vestiario ottenuti da materia prima naturali, a rapido rinnovo, estratte e lavorate in modo sostenibile: sono i negozi di prodotti naturali e/o del commercio equo e solidale. Il quale è tale se si propone di assicurare una equa remunerazione e un equo trattamento delle persone impegnate nella filiera tessile e il rispetto dell’ambiente.

I prodotti di questo “altro mercato” sono oggi più cari di quello tradizionale per il maggior contenuto di lavoro ad essi associato e perché esso viene riconosciuto e remunerato.

Ma anche per le dimensioni ridotte di un mercato oggi ancora “specifico”.

Farlo diventare prima più massivo e poi “ordinario” dipende dalle nostre scelte di consumo.

Pensiamo, come diceva quasi sessantanni fa il mio maestro elementare che “chi più spende meno spende”. Perchè acquista qualità, in questo caso ambientale, etica e sociale.

Senza contare che spendere di più per mangiare o vestirsi meglio acquistando in negozi biologici o equo solidali fa bene a noi stessi e alla nostra salute (sulla quale perciò risparmiamo) oltre che all’ambiente.

E se si vuole spendere nel biologico, naturale ed equo come per il convenzionale basta organizzarsi in gruppo di acquisto solidale (GAS).

La verdura biologica che prendo da produttori in filiera corta con il mio GAS7 mi costa da tempo come (e in certi casi meno) di quella che trovo alla coop o dal fruttivendolo.

E dall’alimentare siamo passati ad organizzare filiere corte, cioè rapporti diretti con i produttori che, saltando le intermediazioni, consento conoscenza e controllo sulla produzione e prezzi di acquisto più bassi, anche per il tessile.

Un’ultima notazione.

Sappiamo che l’economia sostenibile deve essere attenta nell’ordine: a) al modo di produrre e commercializzare i beni (nuovi); b) a ottimizzarne il riuso quando sono destinati all’abbandono prima di aver esaurito il loro ciclo di utilità; c) a favorirne il riciclaggio quando il ciclo di utilità è esaurito ma è ancora utilizzabile il contenuto di energia e materia che incorporano .

Sa questo punto di vista il tessile è il particolarmente vocato anche per il riutilizzo.

Il mercato dell’usato è in questo settore assai più fiorente e connotato da contenuti culturali e di moda peculiari (il vestito d’epoca, il fashion vintage, e via dicendo).-

Alla fine, abbiamo visto che nel settore tessile qualcosa si muove.

Incoraggiare le giuste tendenze, dipende da noi de dalle nostre scelte, come in settori (ad es. l’alimentare) nei quali magari è più semplice percepirlo.

E’ bene saperlo e agire di conseguenza.

1https://www.greenpeace.org/italy/storia/1465/sfilata-detox-2016-quali-marchi-sono-passati-dalle-parole-ai-fatti/

2https://www.greenpeace.org/international/publication/17612/destination-zero/

3https://www.greenpeace.org/italy/comunicato-stampa/559/nuovo-report-di-greenpeace-una-moda-pulita-e-gia-possibile/

4Si veda L’industria tessile e la chimera dei salari dignitosi di Ilaria Sesana in Altra economima 12 Giugno 2019 – https://altreconomia.it/salari-industria-tessile/?utm_source=wysija&utm_medium=email&utm_campaign=NL+14+febbraio+2019

5https://cleanclothes.org/resources/publications/tailored-wages-2019-the-state-of-pay-in-the-global-garment-industry

6 Tale salario deve essere corrisposto nel quadro di una settimana lavorativa di 48 ore e che permette di “soddisfare le esigenze di base di un lavoratore e della sua famiglia”: l’acquisto di cibo, il pagamento di un affitto, le spese di trasporto e quelle sanitarie, i costi per l’istruzione dei figli e la possibilità di risparmiare dei soldi.

7Veneziano Gas – http://www.venezianogas.net/

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