La nuova direttiva europea sulla Due Diligence (2024/1760) è entrata in vigore lo scorso 5 luglio, e deve essere recepita dagli Stati Membri entro il 26 luglio del 2026. La Direttiva, spesso definita con l’acronimo Csdd ( Corporate sustainability due diligence directive ), introduce un cambiamento paradigmatico in merito alla responsabilità delle grandi imprese, che sono chiamate a garantire il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente in tutte le loro filiere, includendo le attività svolte da partner e fornitori. Tra gli ideatori e “padri nobili” di questo concetto esteso di responsabilità delle imprese c’è Francesco Gesualdi, noto anche come “Francuccio”, allievo di Don Milani a Barbiana negli anni ’50, autore di numerosi studi e pubblicazioni sull’argomento e fautore, dagli anni ’80 a oggi, di numerose mobilitazioni e iniziative contro lo sfruttamento del sud del mondo. SAFE gli ha chiesto di esprimere un’opinione sulla nuova direttiva.
D. E’ entrata in vigore una direttiva europea che responsabilizza le grandi imprese in merito a diritti umani e impatti ambientali delle loro filiere internazionali. Quali sono le tue valutazioni al rispetto? Cosa migliorerà e cosa rimarrà uguale?
R. Sul piano del principio cambia tantissimo. In particolare ribalta la posizione sempre tenuta dalle imprese committenti di non avere responsabilità rispetto a ciò che succede all’interno delle imprese terze, collocate lungo la propria fileria produttiva. In passato, le imprese committenti avevano usato questa interpretazione giuridica per rifiutarsi di pagare i danni ai lavoratori che avevano subito danni per incidenti avvenuti all’interno delle imprese terze che lavoravano su contratto per loro. Ad esempio ci volle una campagna di boicottaggio per indurre Chicco Artsana a costituire un fondo che indennizzasse le decine di vittime che avevano perso la vita o erano rimaste ustionate durante l’incendio avvenuto alla Zhili, in Cina, nel 1993. In base alla nuova direttiva, oggi le imprese committenti sono costrette a prevenire, mitigare e porre rimedio alle violazioni che avvengono lungo la loro filiera produttiva. Un altro aspetto importante sul piano del principio è che la direttiva dà riconoscimento ufficiale al salario vivibile. Afferma, cioè, che il salario da corrispondere deve essere sufficiente a garantire una vita dignitosa a chi lavora e alla sua famiglia. Fino ad ora le imprese potevano fingersi etiche impegnandosi a garantire il salario minimo previsto dalle varie legislazioni nazionali, quando era risaputo che i salari minimi legali coprivano percentuali infime dei bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie. Ora questa finzione non sarà più possibile, anche se le imprese faranno tutto il possibile per porre il salario vivibile al livello più basso possibile dal momento che non esiste un criterio universalmente condiviso di salario vivibile. Del resto il motivo per cui le imprese scelgono la delocalizzazione produttiva è l’abbassamento dei costi, primo fra tutti quello del lavoro. Sul piano concreto, dunque, rimane tutto da vedere quali effetti potrà avere la normativa adottata dall’Unione Europea. In particolare tre sono gli elementi di fragilità. Il primo è che la direttiva UE al momento è solo un insieme di linee guida che gli Stati Membri dovranno seguire quando recepiranno la direttiva entro il 2026. Il secondo elemento è che la due diligence si applica solo ai gruppi che hanno più di mille dipendenti e un fatturato annuo di 450 milioni di euro. In pratica esclude tutte le piccole e medie imprese, che però sono inserite anch’esse nella strategia della delocalizzazione produttiva. Il terzo elemento di incertezza risiede nella volontà che i singoli stati avranno di vigilare seriamente sull’applicazione dell’obbligo di due diligence imposto alle imprese. Senza seri meccanismi di controllo, la due diligence rischia di tradursi in una farsa, l’applicazione del detto gattopardesco “cambiamo tutto affinché niente cambi”, perché non si può pretendere che le volpi vigilino volontariamente sull’incolumità delle galline.
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Fonte: Leotron